L'altro giorno al lavoro un collega mi ha chiesto le ragioni dietro alla mia scelta di andare a terapia. Dalla domanda è scaturita una piccola ma affascinante conversazione. Ad un certo punto ho sentito la sua genuina curiosità quando mi ha espresso questo suo dubbio:
Ogni volta che qualcuno mostra curiosità rispetto alla terapia, che sia rivolta nello specifico a me o più generale, sento sempre una complessità di fondo che risulta difficile da colmare in una sola conversazione. Come se il percorso di una vita dovesse essere riassunto in qualche parola. Per quanto mi possa piacere descrivere la mia esperienza, esistono forse delle parole in grado di trasmettere quanto si può imparare in anni e anni di pensieri, riflessioni, e sensazioni sentite ed esplorate in fondo?
Io stesso ho letto molte parole relative all'esperienza della terapia ed al perché può essere uno strumento fondamentale per dar senso a tante cose. Ogni tanto provo anche io a scrivere qualcosa, sempre con lo stesso obiettivo di fondo: prendere nota di cosa è, per me, la terapia. C'è però una realtà di fondo che non può essere evasa. Le parole, da sole, non bastano. Le parole non sono mai bastate, e mai basteranno.
Questo significa che se dovessi rispondere a quella domanda, la risposta sarebbe abbastanza semplice:
Le parole sono solo suoni, vibrazioni, spostamenti di energia. Le parole sono come delle scatole. Quando riceviamo un regalo, l'importante non è la scatola, ma il regalo che contiene. Eppure, la scatola in sé non è meno importante del regalo. La scatola assume un ruolo fondamentale, in quanto rappresenta lo spazio dentro il quale il regalo può esistere e può essere consegnato a noi. Se noi riceviamo il regalo, quindi, è stato anche grazie alla scatola. Ma dobbiamo stare attenti, perché così come possono esistere scatole vuote senza regali, contenitori di assenze e mancanze, così possono esistere parole vuote, parole che non contengono nulla al loro interno, parole vuote, parole piene di assenze e di mancanze.
Se possono esistere parole vuote, quali sono, invece, le parole piene? Di cosa è "piena" una parola piena e quali sono i potenziali regali contenuti in queste ipotetiche parole piene?
Per me, le parole piene sono fatte di una sola ed unica sostanza: riconoscimento. Le parole piene sono quelle che, quando le ascoltiamo, ci trasmettono un indescrivibile senso di essere riconosciuti. Che la persona che sta interagendo con noi intuisce quel miscuglio di energie, a volta contrastanti, che si celano dietro al nostro nome, dietro alla nostra persona. Mentre le parole vuote ci confondono la mente, facendoci perdere in quell'oceano eternamente tempestoso che forma l'umanità stando assieme, le parole piene sono come dei fari, stabili appigli di luce nell'oscurità dell'animo umano.
In questo senso, una buona terapia dovrebbe tendere in questa direzione, che è la direzione delle parole piene. Un nobile intento, considerando che le parole piene possono essere anche estremamente dolorose da sentire. Ed è forse questo sorprendente? Se una vita contiene anche tanta sofferenza, riconoscersi significa anche riconoscere quella sofferenza, e soffrire di conseguenza. L'importante dunque non è tanto essere compresi. Un buon terapeuta, secondo me, non deve necessariamente capire la persona che ha di fronte. Un buon terapeuta deve invece riconoscere chi, esattamente, ha di fronte. Riconoscendo la persona che ha di fronte il terapeuta agisce da specchio, e permette alla persona di guardarsi per ciò che è, nella sua essenza.
Qui nasce una domanda che merita di essere considerata: perché mai avrei bisogno di una persona esterna per capire chi sono veramente? Come faccio a non sapere chi sono? Io mi conosco! La mia famiglia mi conosce! I miei amici mi conoscono! La persona che amo e che mi ama mi conosce!
Ci sarebbe molto da dire riguardo queste tematiche, e ognuno, crescendo, sviluppa il proprio modo di pensare e di sentire queste cose. Io personalmente penso che da questo punto di vista non siamo tutti uguali. Penso che alcune persone, per svariati motivi, uno più complesso dell'altro, riscontrano una maggiore difficoltà nel sapersi riconoscere e nel sapere chi sono veramente. Si confondono con altre persone, e finiscono di credere di essere ciò che non sono e che non sono mai stati. Per questa categoria di persone, la terapia potrebbe essere una valida strada da percorrere per ritrovare la propria autenticità, andandoci a svuotare di convinzioni e pensieri che non ci appartengono veramente.
Trovo che ci sia qualcosa di profondamente terapeutico nel parlare con una persona che ti fa avvicinare alla tua essenza, anche, e specialmente, quando tu stesso, da solo, non sei in grado di farlo, perché sei stato talmente tanto allontanato dalla tua essenza che oramai non la riconosci più, che oramai non la sai più distinguere nel rumore di fondo della vita.
Avere questo tipo di dialoghi, queste conversazioni che riescono a curare l'animo umano, è molto difficile. In queste conversazioni ciò che conta non sono le parole. Prima ancora della ricerca delle giuste parole, qualcosa di comunque necessario, bisogna creare lo spazio all'interno del quale le parole possono trasmettere questa sensazione di essere riconosciuti, una sensazione che va oltre il linguaggio.
La sofferenza che proviamo nel non essere riconosciuti per ciò che siamo è profonda ed impattante. Cosa fare, di fronte a tale enormità? L'unica cosa che possiamo fare è provare a resistere. Resistere fino a quando troviamo nel nostro percorso una persona che ci riconosce, e che, riconoscendoci, ci ricorda che siamo molto altro oltre alla nostra sofferenza.
Resistere, e raccontare.
Raccontare utilizzando tante parole piene.
Ma come si fa ad essere così pieni?
Intuisco che la strada per la pienezza passa, sorprendentemente, per il vuoto. Per la mancanza e per l'assenza. È proprio lì, nel momento in cui non siamo nulla, che possiamo diventare ciò che siamo veramente, perché è proprio l'idea che abbiamo di noi stessi che ci impedisce di essere ciò che veramente siamo, momento per momento.
E così, per riempirci di presenza, dobbiamo prima affrontare il vuoto dell'assenza.
Così impostato, mezzo chimico e mezzo poliziesco, il problema mi attirava: lo andavo riconsiderando quella sera (era un sabato sera), mentre uno dei fuliginosi e geldi treni merci di allora mi trascinava verso Torino.
Ora avvenne che il giorno seguente il destino mi riserbasse un dono diverso ed unico: l'incontro con una donna, giovane e di carne e d'ossa, calda contro il mio fianco attraverso i cappotti, allegra in mezzo alla nebbia umida dei viali, paziente sapiente e sicura mentre camminavamo per le strade ancora fiancheggiate di macerie.
In poche ore sapemmo di appartenerci, non per un incontro, ma per la vita, come infatti è stato.
In poche ore mi ero sentito nuovo e pieno di potenze nuove, lavato e guarito dal lungo male, pronto finalmente ad entrare nella vita con gioia e vigore; altrettanto guarito era ad un tratto il mondo intorno a me, ed esorcizzato il nome e il viso della donna che era discesa agli inferi con me e non ne era tornata.
Lo stesso mio scrivere diventò un'avventura diversa, non più l'itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un'opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prova certe, e s'industria di rispondere ai perché.
Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l'ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioé commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro.
Paradossalmente, il mio bagaglio di memoria atroci diventata una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta.
Il sistema periodico, Primo Levi.